Allevamenti in fiamme: morti 58.000 maiali

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Le fiamme si sono sviluppate esattamente a una settimana di distanza in due allevamenti intensivi, il primo nel Nord-Est della Germania e il secondo in Italia, in provincia di Bergamo. Nei due incendi si stima abbiano perso la vita oltre 58.000 maiali.


Il rogo in Germania

La mattina di martedì 30 marzo un enorme incendio ha divorato uno dei più grandi allevamenti intensivi in Europa, ad Alt Tellin, piccolissimo comune a circa 200 km a nord di Berlino. Le fiamme hanno rapidamente avvolto tutti i capannoni con gli animali, che sono andati completamente distrutti, nonostante l’intervento di ben 75 vigili del fuoco.

A causa di questo incendio, si stima siamo morti circa 57.000 maiali. L’allevamento conteneva infatti circa 59.000 animali (50.000 suinetti da ingrasso e 9.000 scrofe) e soltanto 1.300 maiali si sono salvati, secondo quanto riporta la stampa tedesca.

L’allevamento è anche dotato di un impianto di biogas, motivo per il quale gli sforzi dei vigili del fuoco si sono concentrati nell’impedire alle fiamme di raggiungere i silos contenenti il combustibile, altamente infiammabile.

L’allevamento è stato sottoposto a sequestro, in attesa che vengano completate le indagini per chiarire le cause del rogo, che al momento non sono ancora note. Si trattava di una struttura recente, inaugurata appena dieci anni fa e costata venti milioni di euro.


L’allevamento in fiamme nella bergamasca

Nel tardo pomeriggio di martedì 6 aprile ha preso fuoco un altro allevamento di maiali, questa volta in Italia ed esattamente a Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo. All’interno vi erano fortunatamente all’incirca appena 800 maiali, un numero basso per un allevamento intensivo. Molti di questi sono rimasti feriti e sono stati comunque soppressi nel corso del giorno successivo.

Stando ai primi accertamenti, l’incendio avrebbe avuto origine da un problema elettrico sviluppatosi tramite il tetto del capannone, la cui superficie complessiva è di 1.000 m².


Tragedie annunciate

Queste due tragedie, verificatesi a brevissima distanza di tempo, pongono ulteriori pesanti ombre sugli allevamenti intensivi, luoghi di segregazione nei quali il recupero degli animali nel caso di incidenti o calamità naturali è particolarmente complesso, non soltanto perché vi sono pochi addetti in rapporto al numero di animali ma soprattutto per le caratteristiche costruttive intrinseche.

Per quanto riguarda i maiali, ad esempio, ogni capannone è diviso in diversi recinti, con decine di animali in ciascuno di essi. Per portare in salvo gli animali, gli addetti presenti dovrebbero aprire un recinto per volta, far defluire gli animali (agitati a causa del fumo e delle fiamme) e condurli verso l’esterno, ripetendo l’operazione per ciascun recinto e capannone. Un’impresa di fatto impossibile quando intorno scoppia un incendio: la priorità per i lavoratori diventa quindi mettere in salvo la propria vita, allontanandosi il prima possibile, anziché tentare di salvare poche decine di animali prima dell’arrivo delle fiamme. Le scrofe poi passano la maggior parte della propria esistenza in apposite gabbie individuali (gabbie gestazione, gabbie parto) e sono quindi destinate a restarvi intrappolate, in quanto ogni tentativo di recupero sarebbe praticamente impossibile.

Anche quando i capannoni non prevedono recinti interni, gli animali sono spesso chiusi in gabbie (es. galline ovaiole) o sono migliaia in poco spazio, inoltre la presenza di ostacoli (mangiatoie, nastri trasportatori) complica la possibilità di intervento.

In effetti, gli incidenti che riguardano allevamenti intensivi sono abbastanza frequenti, anche se non hanno certo risonanza sulle prime pagine dei quotidiani, dato che non provocano vittime umane. Negli ultimi anni si sono verificati anche crolli di tetti e guasti agli impianti di aerazione, oltre alle calamità naturali come terremoti e alluvioni. In tutti i casi, il numero di vittime (non umane) è stato elevatissimo.


Allevamenti intensivi sotto accusa

Se per l’industria queste perdite sono accettabili e possono essere assorbite dalle assicurazioni, non lo sono certo per la collettività, che domanda a gran voce un trattamento più equo per gli animali negli allevamenti. Questo sistema di produzione è rimasto a lungo sconosciuto ma negli ultimi anni sta finalmente emergendo una maggiore consapevolezza, principalmente grazie alle denunce delle associazioni animaliste.

Tragedie come queste ultime due pongono quindi per l’ennesima volta in evidenza la fallacia di un sistema basato sulla concentrazione di enormi quantità di animali in spazi ristretti, già sotto accusa perché non tiene minimamente conto delle esigenze etologiche degli animali. Gli allevamenti intensivi sono attaccati anche per l’impatto ambientale, per l’elevata impronta ecologica e per essere alla base del preoccupante fenomeno della resistenza agli antibiotici.

Si tratta di un sistema che sembra destinato a crollare, anche se — probabilmente — ci vorranno ancora diversi anni. Nel contempo, le politiche europee da un lato sembrano fare l’occhiolino alle richieste della gran parte di società che chiede cambiamenti, dall’altro faticano a togliere all’industria i sussidi di cui necessita per mantenere in piedi questo sistema basato sulla produzione di carne a basso costo.

Proprio in questi giorni, una nuova ricerca di Greenpeace ha messo in luce che la Commissione Europea dal 2015 al 2020 ha speso 776,7 milioni di euro per promuovere il consumo di carne e derivati: ben il 32% del budget quinquennale per la promozione di prodotti agricoli. Nello stesso periodo, per promuovere frutta e verdura sono stati spesi appena 146,4 min di euro (il 19% del budget).

Dagli allevamenti intensivi otteniamo carne a basso costo, sì. Ma a prezzo?

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