Perché i “grattacieli per maiali” cinesi riguardano anche noi?

Questa storia è solo la punta dell'iceberg: è l’intero sistema alimentare a dover essere ripensato.
Compassion in World Farming

Nelle scorse settimane i media occidentali hanno diffuso la notizia di un maxi-allevamento suinicolo che sta sorgendo in Cina, composto da due edifici di 26 piani con 800mila metri quadrati di superficie complessiva, nel quale verranno allevati ogni anno 1,2 milioni di maiali, rompendo ogni record di strutture analoghe già presenti nel paese.

La Cina e il suo consumo di carne di maiale

Le immagini diffuse online impressionano per l’imponenza della costruzione, così come enorme è stato l’investimento – oltre 570 milioni di euro – necessario per il completamento dell’opera, che scommette sull’andamento del consumo di carne di maiale nel paese del dragone, attualmente pari a poco meno di 52 milioni di tonnellate, ma che si stima salirà a oltre 60 nel corso del prossimo decennio. A lungo la produzione locale non è stata in grado di tenere il passo con l’impetuosa crescita della domanda, andata a braccetto con lo sviluppo dell’economia, tanto che la Cina ha dovuto fare ampio ricorso alle importazioni dall’Europa e dal resto del mondo. Sono stati proprio gli investimenti nazionali come questo ad aver in gran parte eliminato la dipendenza dall’estero.

Il costo per la collettività dei “pig hotel”

Questi “pig hotel” (questo il loro soprannome) sembrano quindi destinati a ripagare ampiamente gli investitori, ma a che costo per la collettività? Gli allevamenti intensivi sono noti per produrre numerose esternalità negative, prima fra tutte l’inquinamento delle acque. Gli animali poi sono quasi sempre assenti dall’equazione, eppure sono centinaia di milioni, trattati come mezzi di produzione e per questo subiscono sulla loro pelle sofferenza e spesso violenze inimmaginabili, poco compatibili con il concetto di “umanità” e sviluppo che dovrebbero caratterizzare il nostro secolo e lontane persino dal concetto di blando “benessere animale” che le norme vorrebbero venisse attuato.

Al quadro già preoccupante si aggiunge un dettaglio sinistro: questa nuova mastodontica architettura sta sorgendo nel paesaggio rurale a 80 chilometri a sud-est di Wuhan, luogo nel quale ha avuto origine la pandemia di coronavirus. Per via di tutte le caratteristiche intrinseche del modello intensivo, tra cui l’elevato numero e densità di animali e la meccanizzazione spinta, questi allevamenti sono un terreno fertile per lo sviluppo di nuovi agenti infettivi e rappresentano quindi potenziali minacce alla sanità pubblica, tanto che il Commissario europeo all’ambiente, Virginijus Sinkevicius, nel 2020, aveva dichiarato che vi erano «gravi indizi che il modo in cui viene prodotta la carne, non solo in Cina, ha contribuito a COVID-19».

E se i “grattacieli per maiali” arrivassero in Europa?

Verrebbe da chiedersi se questo modello possa comunque trovare strada in Europa. Alcuni allevamenti multilivello sono sorti anche in Italia, precisamente in Emilia-Romagna, per allevare polli, la cui carne è sempre più richiesta in Europa, a differenza di quella carne di maiale, la cui domanda è in calo. Tuttavia, al momento non sembrerebbe che questo modello possa affermarsi anche da noi. Queste limitate iniziative imprenditoriali hanno goduto di scarso successo e non sono state imitate a causa dell’opposizione della popolazione dovuta a cattivi odori e all’inquinamento ambientale, oltre che – dal lato degli allevatori – per il timore di moltiplicare le perdite in caso di malattie. Le regole sanitarie, infatti, prevedono che all’emergere di un focolaio sia necessario abbattere tutti gli animali presenti in allevamento, come accaduto lo scorso anno in Veneto e Lombardia, dove l’epidemia di influenza aviaria sviluppatasi nel 2021 — con 308 focolai — ha portato all’abbattimento di oltre 18 milioni di animali.

Se queste ragioni sembrerebbero frenare la strada agli allevamenti verticali, va detto che questo sistema apporta un vantaggio evidente rispetto agli allevamenti orizzontali: la riduzione del consumo di suolo. In ogni caso, anche questa innovazione non sarebbe comunque in grado di superare le inefficienze intrinseche del modello intensivo. Gli allevamenti intensivi – e più in generale la produzione massificata di carne, latte e uova – hanno un impatto ambientale elevatissimo, che un pianeta già febbricitante a causa delle tante scelte autolesionistiche di noi sapiens, non può permettersi di sopportare oltre.

Per questo motivo, questo sistema di produzione, che nei decenni scorsi ha consentito di abbattere i costi di produzione, oggi non è più sostenibile per via del danno che provoca alla salute animale e umana. Non a caso, è sempre più sotto attacco. Ad aprile, uno studio dell’Università di Bonn ha stabilito che i Paesi ricchi dovrebbero ridurre il consumo di carne di almeno il 75%.

Seguire il percorso opposto, verso la de-industrializzazione

La sfida è, quindi, seguire un percorso inverso, che porti alla rapida de-industrializzazione del settore della produzione animale e alla riscoperta dell’allevamento estensivo, nonché di una dieta maggiormente vegetale. La necessità di garantire l’accesso equo alle risorse alimentari passa oggi dal sostegno pubblico verso la transizione a un sistema alimentare nel quale il ruolo delle proteine animali sia grandemente ridimensionato.

Un obiettivo tendenziale per il cui raggiungimento saranno necessari anni, ma alcuni segnali fanno sperare che il percorso sarà meno lungo e accidentato di quanto si possa immaginare. Le nuove linee guida nutrizionali elaborate dal comitato scientifico della agenzia spagnola per la sicurezza alimentare e la nutrizione, ad esempio, raccomandano di contenere il consumo di carne da zero a tre porzioni a settimana. Gli esperti riconoscono che ridurre il consumo apporta benefici sia per la salute umana che per il pianeta.

Di pochi giorni fa è anche la notizia che gli ospedali della municipalità di New York hanno iniziato a offrire ai pazienti un menù interamente plant-based che riduce il contenuto di colesterolo e grassi saturi all’interno dei pasti, aumentando le fibre e micronutrienti. Si tratta di un’iniziativa lanciata in collaborazione con Greener by Default, un’organizzazione non-profit che si impegna per rendere più inclusiva e sostenibile, oltre che più sana, la scelta di base nella ristorazione collettiva, senza limitare la possibilità di aggiungere anche opzioni che includono la carne per chi proprio non può farne a meno. Un’idea all’apparenza semplice, che richiede comunque di ridisegnare completamente i menù, in modo che siano completi e bilanciati.

In Italia Essere Animali ha lanciato il progetto Meno per più, che ha finalità simili e ha raggiunto in pochi anni importanti risultati nel cambiare la ristorazione collettiva, sensibilizzando sul rapporto tra cibo, salute e crisi climatica.

Anche noi di ALI ci impegneremo per diffondere una maggiore consapevolezza su questi temi e soprattutto affinché l’impegno per una transizione verso un sistema alimentare più sostenibile entri il prima possibile nelle politiche pubbliche. Una recente ricerca di Greenpeace ha portato alla luce che l’Italia spende ancora per sovvenzionare gli allevamenti intensivi. Il compito appare molto complesso, eppure questo percorso non è ulteriormente rinviabile.

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