Excalibur e la spada dell’antropocentrismo

Il terribile virus ebola, che negli scorsi mesi ha provocato oltre 3.300 decessi in Africa, ha solcato il Mediterraneo e mietuto la prima vittima in Europa, come ci si aspettava da tempo. Tuttavia, l’ebola non è la causa diretta di questa disgrazia, tanto che addirittura non sappiamo se quel soggetto ne fosse stato effettivamente contagiato e, nel caso, quante probabilità avesse di diffondere la malattia. La vittima in questione, infatti, è stata deliberatamente uccisa per evitare un possibile contagio. Si è trattata quindi di una morte preventiva, assurda e ingiusta, al pari delle guerre che negli ultimi anni sono stategiustificate apponendo lo stesso aggettivo.

A muovere la penna che ha firmato l’ordine di soppressione di Excalibur, il cane dell’infermiera spagnola malata — lei sì, accertata — e quindi in isolamento in ospedale insieme al compagno, è stato il dubbio che il cane, entrato in contatto con la proprietaria, potesse essere stato infettato, diventando a sua volta possibile veicolo di diffusione della malattia. Un timore assurdo e immotivato, tenuto conto che Excalibur non era stato nemmeno visitato, oltre che del tutto irrealistico, dato che l’OMS non ha mai registrato casi di contagio del virus da cani a umani. Anzi, uno studio del 2005 suggerisce che nei cani il virus resti asintomatico. Se poi Excalibur fosse risultato davvero malato, piuttosto che condannarlo a morte sarebbe stato sufficiente metterlo in isolamento e monitorarlo, traendo peraltro utili informazioni su comecurare il virus nei cani e sul possibile contagio tra specie.

Queste considerazioni di buon senso, invece, richiamate da una petizione firmata in poche ore da oltre 300mila persone, sono rimaste del tutto inascoltate. A nulla è servita la mobilitazione estemporanea di tanti spagnoli e il cordone di attivisti sotto casa; a nulla i messaggi disdegno che tracimavano dai social network. Le autorità sanitarie si sono irrigidite nella loro burocratica freddezza e hanno spietatamente deciso di andare avanti, liberandosi del problema nel modo più semplice e rapido. Una decisione che dimostra un’assenza di strategia nella prevenzione della diffusione di malattie infettive, poiché nell’ipotesi peggiore di diffusione della pandemia, una soluzione simile si dimostrerebbe drammatica oltre ogni immaginazione. Applicando lo stesso metro di Excalibur, difatti, qualora davvero dovesse diffondersi il contagio, le autorità sanitarie dovrebbero uccidere indiscriminatamente tutti gli animali d’affezione che sono venuti a contatto con umani malati.

Uno scenario apocalittico ma decisamente coerente con la realtà antropocentrica che informa la nostra società: davanti alla possibilità che un cane — un essere senziente, classificato però dalla legge come oggetto — possa provocare un contagio e conseguenti danni economici per migliaia di euro, quale soluzione migliore che eliminarlo? D’altronde, che valore ha la vita del cane, anzi di un cane qualunque, rispetto ai possibili danni che potrebbe provocare se infetto? Anche se sarebbe possibile isolarlo, dotandolo di personale attrezzato, il gioco non varrebbe la candela. Ecco allora che alla vita viene attribuito un valore economico, che rientra nel calcolo costi/benefici e quando i costi eccedono i benefici, allora quella vita si deve sacrificare. Un calcolo spietato e tremendo, che fa accapponare la pelle.

Un giorno capiremo che Excalibur è stato suo malgrado perseguitato, condannato e ucciso con la stessa insensata foga con cui il popolo milanese dava la caccia agli untori, durante la terribile peste del 1630 di cui ci racconta Manzoni nei Promessi Sposi; ciò dimostra che nell’umano, creatura umorale, la ragione spesso viene soppiantata dall’emotività. E’ indubbio che questa vicenda abbia rappresentato un crollo verticale nella nostra civilizzazione, un ritorno indietro di decenni nel nostro rapporto con gli animali e una sconfitta dei progressi nell’empatia e nella compassione, nonché un arresto della stessa razionalità scientifica, che esigeva semmai di studiare il caso, curando il cane, al fine di acquisire informazioni per la cura del male. Eppure, c’è chi pur condannando l’accaduto, ne semplifica le implicazioni, riconducendo la decisione di uccidere il cane a un mero eccesso di zelo, in fin dei conti comprensibile quando in gioco c’è la salute pubblica.

Del resto — hanno ricordato ip iù commentando l’accaduto — quanto può valere la vita di un cane in un paese tristemente noto per le perreras, luoghi di detenzione temporanea in cui i cani randagi che vi entrano hanno una data di scadenza,s pirata la quale se non trovano adozione vengono “addormentati”? Quale considerazione può darsi in quella società a un animale che se nasce per strada o viene abbandonato, ha una spada di Damocle costantemente pendente sulla testa? Evidentemente, vi è in Spagna (paese che si segnala anche per la corrida e per tante altre pratiche violente) un ritardo in quella evoluzione del sentire collettivo che in Italia ha mutato la considerazione morale nei confronti degli animali d’affezione (almeno di quelli!), rendendoli soggetti di una vita degna di essere vissuta, che non può essere loro arbitrariamente sottratta per mere motivazioni economiche.

Tuttavia, questa ricostruzione è parziale e fuorviante. Dobbiamo ricordare che, a parte piccole differenze da luogo a luogo, la società è totalmente intrisa nella logica antropocentrica, che considera gli animali alla stregua di oggetti e l’Italia di certo non si sottrae a questa matrice specista. Basti pensare a cosa accade ogni qual volta si diffonda un’infezione all’interno di un allevamento intensivo: appena gli animali sono classificati come pericolosi per la salute pubblica, vengono soppressi a migliaia.Alla base, in realtà, non vi principalmente la volontà di proteggere gli umani, quanto la considerazione che avendo perso ogni loro funzione economica, sono divenuti un peso per l’industria zootecnica, che se ne deve disfare facilmente e inmodo legale. I dati di questo sterminio arrivano difficilmente al pubblico, perché si vuole evitare il diffondersi della psicosi e il crollo dei consumi, come capitato con il caso mucca pazza, influenza suina e aviaria. Sia che si tratti di migliaia di pecore che hanno mangiato erba contaminata dalla diossina dell’ILVA, sia che siano polli malati di aviaria, queste vittime silenziose vengono immolate sull’altare del profitto, per consentire alla nostra società di continuare a perpetrare le pratiche di sfruttamento che vedono vittime milioni di animali.

Non soltanto: in un sistema economico in cui gli animali sono prodotti, accade ogni giorno che gli individui malati vengano semplicemente scartati, alle volte persino lasciati morire senza cure e senza costosa eutanasia; quando va bene, può essere il colpo di un badile a porre fine alle loro sofferenze. Di queste orribili “prassi” oramai vi è ampia documentazione tramite le investigazioni realizzate da attivisti sotto copertura in tutto il mondo occidentale e il Belpaese non ne è certo risparmiato.

Per questo motivo, possiamo affermare che la storia di Excalibur non deve riguardare solo antispecisti, animalisti e zoofili, che giustamente si sono tutti indignati per l’accaduto ma dovrebbe essere da sprono per una più complessa riflessione sul nostro rapporto con gli altri animali, a partire da quelli che abbiamo inserito in categorie privilegiate (cani, gatti, in parte i cavalli) ma che troppo spesso restano tuttora privi della qualità morale di soggetti titolari di una vita degna di considerazione in sé, le cui esigenze devono soccombere davanti ai superiori interessi umani. Se il mutamento della condizione animale riflette quello delle pratiche di dominio che l’uomo esercita quotidianamente su di essi, allora la condizione degli animali d’affezione (i più vicini a noi e quindi quelli più tutelati) è la cartina di tornasole del nostro rapporto complessivo con tutti gli altri animali e in quanto tale merita particolare attenzione.

Ogni retrocessione comporta un pericoloso rischio di anestetizzare le nostre coscienze e reputare normali alcune pratiche che la coscienza collettiva ha di recente iniziato a mettere in discussione. Non essere vigili e banalizzare questi episodi, fa correre il rischio di ritrovarci tra qualche anno a dover ripetere lotte per ottener ericonoscimenti che consideravamo già acquisiti.

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