Ice bucket Challenge Vs secchio vuoto

Una sfida per colmare un vuoto di comunicazione.

In tanti ne parlano ma in pochi hanno ben compreso di cosa si tratta. La Ice Bucket Challenge (IBC) è una sfida a distanza a colpi di secchiate di acqua ghiacciata, nata con l’intento di sensibilizzare sulla sclerosi laterale amiotrofica (SLA) e raccogliere fondi per la ricerca, che in poco tempo si è diffusa in modo virale su internet. Le regole sono semplici: basta girare un breve filmato durante il quale ci si rovescia addosso un secchio di acqua gelata, invitando gli spettatori a donare alle associazioni che raccolgono fondi per la ricerca contro la SLA (in America, ALS Association, in Italia AISLA) e nominando altri che raccolgano il testimone; a loro volta, questi ultimi hanno 24 ore di tempo per accettare la sfida e sottoporsi alla doccia gelata, oppure possono rinunciarvi, limitandosi a donare alla ricerca. Questa “catena di Sant’Antonio” contiene tutti ingredienti capaci di far impennare le visualizzazioni su YouTube e scatenare il cosiddetto hype, grazie anche alla partecipazione di vari personaggio famosi, i quali non hanno perso tempo nel fiutare un’occasione di farsi pubblicità sfruttando l’intento filantropico della causa. Va da sé che man mano che la IBC si è popolarizzata, ha in parte perso l’intento iniziale, essendosi oramai trasformata in un fenomeno del web, presto imitato da chiunque al solo scopo di esibire la propria bontà d’animo e raccogliere apprezzamenti sui social network.

Ciò che passa sotto silenzio è che la ricerca contro la SLA si avvale in larga misura della sperimentazione animale e che quindi i fondi donati finiranno inesorabilmente per tramutarsi in un maggior numero d’individui prigionieri per nuovi dolorosi esperimenti. Dobbiamo ricordarci che sostenere la ricerca medica implica, al momento, contribuire direttamente a perpetrare l’utilizzo di animali, salvo che non si decida di sostenere istituti o centri di ricerca che effettuano ricerca tramite metodologie alternative. Pertanto, nell’attesa che i metodi sostitutivi siano i soli consentiti dalla legge e la ricerca che implica l’uso di animali si trovi a essere relegata alle pagine dei libri di storia, insieme a altri orrori commessi in passato (anche prossimo) dall’umanità, è importante non elargire denaro a enti che finanziano la ricerca con animali.

Tuttavia, di tali considerazioni non vi è traccia alcuna nel dibattito pubblico, per com’è stato veicolato dai mezzi di informazione. Questi si sono limitati a fare da cassa di risonanza per le esibizioni dei personaggi pubblici impegnati nel buttarsi addosso il fatidico secchio d’acqua; persino il preciso comunicato della LAV non è stato ribattuto dai principali media. Eppure il pubblico italiano dovrebbe essere particolarmente sensibile alla tematica, considerato che dai sondaggi emerge una maggioranza contraria alla sperimentazione e tenuto anche conto del numero di firmatari nel nostro Paese della iniziativa popolare Stop Vivisection.

Di questa singolarità occorre prendere atto, tenuto anche conto che il dibattito sulla sperimentazione animale non s’è mai sopito, grazie anche a iniziative come l’occupazione dello stabulario della facoltà di Farmacologia dell’Università di Milano, compiuto dagli attivisti del Coordinamento fermare Green Hill lo scorso anno e che è stato al centro di un’imponente campagna mediatica da parte dei pro-test, così come il grave episodio di aggressione verbale avvenuto alla fine dello stesso anno ai danni della studentessa di veterinaria Caterina Simonsen e, a breve distanza di tempo, le scritte apparse sempre a Milano contro cinque ricercatori e poi rivendicate dall’ALF. Sono tutti episodi largamente strumentalizzati dai pro-test per far emergere le proprie ragioni, il che potrebbe indurre a una riflessione sull’indipendenza dei media riguardo alla tematica.

Per tentare di portare all’attenzione del vasto pubblico la semplice verità che la IBC finanzia la vivisezione, Radiobau ha lanciato in rete una iniziativa contraria, chiamata Empty Bucket Challenge e che sta circolando sui social network con l’hashtag #SecchioVuoto.

Si tratta di una parodia dell’originale, nella quale la doccia gelata resta metaforica, consistendo nel gelare le aspettative dello spettatore, il quale viene accolto con un secchio vuoto e un breve messaggio in cui si invita a non finanziare la ricerca con animali e si spiegano le motivazioni, etiche o scientifiche, della propria contrarietà alla sperimentazione animale; allo stesso modo dell’originale, il video si conclude con la nomina di tre o più persone che raccolgano il testimone.

L’iniziativa è parecchio interessante, per la sua volontà di esprimere una voce unita di tutto il mondo animalista (in senso lato), che come è noto solitamente si parcellizza in mille gruppuscoli sulla base di distinzioni più o meno reali e di distinguo più o meno doverosi. Tuttavia, ad oggi non sembra che tale contromossa abbia suscitato l’attenzione dei media, i quali dopo aver lungamente colmato le pagine e gli spazi televisivi vuoti per la pausa estiva della politica seguendo le prodezze dei personaggi coinvolti nella IBC, in questo primo scorcio di settembre hanno ripreso a occuparsi di politica e seguono con più distacco (ma non senza interesse) gli sviluppi della catena. Purtroppo, se si cerca un articolo che dia conto delle ragioni dell’antivivisezionismo, non vi si trova traccia alcuna. La ragione è forse da ricercare in un complotto volto a tarpare le ali degli antivivisezionisti, oppure pur sempre nella arcinota mancanza di coordinamento tra le associazioni e nell’assenza di un potere di lobbying interno alla galassia animalista? Nulla di tutto questo.

Molto probabilmente, la motivazione è che l’iniziativa, per quanto lodevole, soffre di notevoli pecche. Innanzitutto, non è telegenica: l’IBC deve in larga parte la sua fortuna al fatto che è divertente; al contrario, il secchio vuoto eufemisticamente si può definire poco interessante da guardare, considerato il messaggio tetro, i toni paternalistici e moraleggianti dei partecipanti e l’assenza dell’elemento della doccia gelata; insomma, non convince e non entusiasma. In seconda battuta, gioca un ruolo fatidico l’esaurirsi dell’interesse verso la tematica, dovuto alla maggiore abbondanza di notizie rispetto allo scorso mese. Terzo e più importante motivo, la contro-sfida è circolata solo su Twitter e Facebook, ove vanta una sua pagina, restando confinata all’interno della cerchia di contatti animalisti, senza espandersi all’esterno perché vittima della logica inclusiva del social network, che replica dinamiche per certi versi settarie e ne argina la diffusione.

All’apparenza, si tratta di una campagna virale, tuttavia non è circolata al di fuori del pubblico “animalista”, restandovi confinata senza aver impattato sui destinatari designati. Questo poiché, come è noto, Facebook impiega un algoritmo per mostrarci i contenuti sulla schermata home in modo che siano il più possibile aderenti ai nostri interessi. Di ciò non occorre alcuna dimostrazione, essendo massima di esperienza comune. Così, se ad esempio clicchiamo “mi piace” e interagiamo con pagine ove si parla di caccia, non soltanto ci mostrerà pubblicità di fucili e abbigliamento da caccia ma anche post tratti da pagine simili a quelle che seguiamo e post dei nostri amici che siano attinenti al tema. Con il passare del tempo, man mano che l’algoritmo di Facebook affina la scoperta dei nostri gusti e ci inserisce sempre più nella “galassia caccia”, troveremo pubblicità di riviste di settore, suggerimenti di gruppi di cacciatori e di amici cacciatori, oltre a altre pagine sulla stessa tematica e decine di articoli sull’argomento che ci sta tanto a cuore. Così capita che se un nostro contatto posta un video che riguarda una nuova investigazione di un gruppo antispecista, è altamente probabile che Facebook ce lo nasconderà e noi continueremo a vivere felici nel nostro mondo di amanti della caccia, nel quale grazie alle interazioni con soggetti che la pensano esattamente come noi, saremo sempre più convinti che questo sia uno “sport” e un modo sano per amare gli animali e restare in contatto con la natura.

Al contrario, accade che chi frequenta la “galassia animalista”, si convinca che la propria etica pervade il mondo, che delle proprie questioni si interessi chiunque e che tutto vada sempre meglio («Il 201* è l’anno vegan», è slogan che si ripete immutabile di anno in anno). Ovviamente si tratta di un esempio estremizzato, tuttavia è facile comprendere come tutti noi utenti siamo vittime del meccanismo di ghettizzazione che il social network compie del tutto consapevolmente in quanto funzionale a migliorare la qualità e quantità delle nostre interazioni tra gli utenti, inducendoli a restare più tempo connessi e aumentando quindi gli introiti pubblicitari. Inoltre, si deve considerare che in questo mondo virtuale all’interno della rete, sempre più spesso le prassi comunicative si confondono con quelle reali e innescano dinamiche di pericolosa sovrapposizione nei piani relazionali.

Al tempo stesso, l’assenza di presenza fisica simultanea e la possibilità di modificare e cancellare ciò che si scrive rende la comunicazione più disinvolta e le attività degli utenti che ne sono protagonisti sono spesso il frutto di disattenta routine senza richiedere particolare esercizio di pensiero; per questo, le interazioni sono spesso estemporanee e i luoghi virtuali strabordano di opinioni non meditate, di sovente espresse in modo frettoloso, lessicalmente imprecise e sintatticamente poco chiare. Dei guazzabugli linguistici che consentono al loro autore di esprimere la propria individualità, emergendo nella gara al maggior numero di “like”. In un simile contesto, le opinioni si scontrano senza che nessuno riesce a convincere l’avversario della bontà della propria tesi e dare corda a provocatori o ontestatori equivale a una quasi certa perdita di tempo.

Sulla perversione di questi meccanismi ciascuno può fare le proprie osservazioni, tuttavia soggiungerò soltanto che oltre alla falsa percezione di poter finalmente cambiare il mondo, si verifica purtroppo un generale appiattimento dei contenuti e un istupidimento dilagante, che porta alla diffusione incontrollata di bufale e teorie errate, che complessivamente non giovano alla buona salute delle tesi che si dovrebbero sostenere.

Questo perché il racchiudersi più o meno consapevolmente in cerchie ristrette replica le dinamiche dei gruppi umani nei quali l’assenza di contatti esterni porta all’atrofizzazione della cultura e al regredire della capacità di elaborare dati di realtà obiettivi.

Ecco che nei rari casi in cui avviene un incontro tra monadi appartenenti a due “galassie” distinte, come ad esempio in gruppi neutri, accade quindi che il livello della discussione sia spaventosamente basso. Ovviamente, questa situazione riguarda anche gli oppositori ai diritti animali. Si pensi alla pagina Facebook A favore della sperimentazione animale e al livello becero di contenuti presenti, che di scientifico non hanno conservato assolutamente nulla, come spiegato di recente da Serena Contardi in un suo recente articolo pubblicato sul numero 17 di Liberazioni. Per questi motivi, sin da un primo esame l’armamentario retorico del difensore medio della sperimentazione animale sulle arene virtuali appare molto rudimentale, non discostandosi di molto dalla classica favoletta del topolino che si sacrifica per salvare il bambino malato di un grave male incurabile. In alcune varianti, si precisa che lo sfortunato topo eroe salva anche altri animali, perché la sperimentazione animale serve anche per trovare cure per i nostri animali domestici. Comunque la si ponga, si converrà che si tratta a prima vista di una grottesca banalizzazione del problema, che agli occhi di un antispecista non meriterebbe quasi replica e che la critica antivivisezionista di matrice scientifica ha disinnescato da tempo, se non fosse particolarmente pericolosa, poiché ideata per incunearsi nelle pieghe della coscienza di coloro che reputano la sperimentazione animale ripugnante, facendo breccia sul loro senso di umanità. In tal modo, ogni opposizione morale viene rapidamente superata e messa da parte, sicché il varco è oramai aperto e in esso ci si può infilare ogni ipotesi di utilizzo di animali a fini sperimentali, in quanto “necessitata”. Si badi che la scelta prospettata è tra salvare o condannare il malato, perché il “sacrificio” del topo è dato come salvifico, mentre nella realtà sappiamo che così non è. Questo espediente retorico ha quindi gioco facile nell’attrarre l’interlocutore poco saldo dalla parte della sperimentazione animale, perché se questi non accetta di salvare il malato, diviene antiumano; se invece cede almeno in parte a questa pressione e ammette un qualche limitato utilizzo della sperimentazione animale, allora è già caduto nella trappola e gli si può far ammettere con facilità che la sperimentazione animale è sempre utile e accettabile, perché anche solo potenzialmente salva delle vite. In fondo, dire quando è utile o no è mestiere dei medici e ricercatori, certo non della gente comune.

L’invito è quindi innanzitutto a non prendere subito per vero ciò che accade sui social network, a informarsi sempre sulle notizie che circolano per poter riconoscere i contenuti validi da quelli che non meritano attenzione, nonché impegnarsi per portare la discussione al di fuori delle arene virtuali, dove si realizza il vero cambiamento. Altrimenti, finiremo per ghettizzarci sempre più e appiattirci su contenuti stantii e fasulli, vivendo una realtà virtuale a nostra immagine e somiglianza ma sempre più scollata dalla realtà.

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