Maltrattamento: sulla “sofferenza” importante chiarimento dalla Cassazione

La Suprema Corte ritiene del tutto irrilevante la circostanza che i veterinari non abbiano riscontrato un cattivo stato di salute dei cavalli.
Avv. Annalisa Gasparre

Avv. Annalisa Gasparre

Avvocato, dottore di ricerca, vanta una decennale esperienza nel settore della tutela degli animali e dei soggetti deboli. Sito internet

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Due soggetti proprietari di alcuni cavalli sono stati indagati per la contravvenzione di detenzione di animali in condizioni incompatibili, ovvero – sostanzialmente – abbandonati. Emerge che gli animali erano detenuti in una situazione gravemente incidente sulla loro sensibilità psico-fisica, in considerazione delle modalità del ricovero (senza cibo e acqua, in recinti pieni di deiezioni non rimosse da giorni).
Il sequestro probatorio originariamente disposto era stato convertito in sequestro preventivo, sussistendone i requisiti; tale conversione, di fatto, impediva che l’esaurirsi della finalità del sequestro probatorio (assicurare la fonte di prova ai fini della prosecuzione del processo) comportasse un ritorno (rectius, restituzione) degli animali ai soggetti che del loro maltrattamento erano accusati.

Avverso il decreto di conversione in sequestro preventivo gli indagati proponevano istanza di riesame. Il Tribunale del riesame con ordinanza respingeva l’istanza.

Impugnato quest’ultimo provvedimento davanti alla Corte di Cassazione, almeno sul piano cautelare, la vicenda si chiude: i cavalli non saranno restituiti.

Afferma infatti la Suprema Corte che ai fini della configurabilità del reato che si addebita (art. 727 c.p.) non è necessario che l’animale riporti alcuna lesione all’integrità fisica, potendo la sofferenza consistere anche soltanto in meri patimenti ovvero in situazioni che incidono sulla sensibilità psico-fisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione; di contro, è del tutto irrilevante la circostanza che i veterinari non abbiano riscontrato un cattivo stato di salute dei cavalli.Sussiste, in definitiva, il fumus delicti (primo presupposto “implicito” del sequestro preventivo).

Poiché fine del sequestro preventivo è di impedire che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati, è necessario perimetrare il concetto di pertinenzialità rispetto al reato. I giudici ritengono che sia ovvio il rapporto di pertinenzialità tra gli animali e al reato relativo alle condizioni del loro mantenimento.

Si sottolinea, infine, che in mancanza di provvedimento ablativo (qual è il sequestro o meglio la successiva eventuale confisca) sussiste il rischio che gli indagati possano reiterare le loro condotte lasciando nuovamente gli animali in stato di sostanziale abbandono, qualora ne avessero riacquisito la disponibilità.

Insomma, per ora, in attesa della conclusione del processo di merito, gli animali sono al sicuro.

Per una problematica connessa, su questa Rivista, L’animale partorito è “frutto”? E se la madre è sotto sequestro?

La sentenza (Cass. pen., III sez., sent. n. 34192/17).

(omissis)

Ritenuto in fatto

1. Con decreto in data 4/10/2016, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Latina aveva convertito in sequestro preventivo il sequestro probatorio in precedenza disposto in relazione alla contravvenzione di cui all’art. 727 cod. pen., contestata a C.D.S. e a D.A. per avere detenuto alcuni cavalli in condizioni incompatibili con la loro natura e agli stessi produttivi di gravi sofferenze.
Con successiva ordinanza del Tribunale del riesame di Latina in data 3/11/2016 era respinta l’istanza di riesame formulata in relazione a tale decreto.
2. Avverso la predetta ordinanza hanno personalmente proposto ricorso per cassazione, a mezzo del difensore fiduciario, gli stessi D.S. e A., i quali hanno dedotto due distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..

2.1. Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) e e) cod. proc. pen., la nullità dell’ordinanza impugnata per violazione dell’art. 324, comma 3 cod. proc. pen. nella parte in cui esso prevedrebbe, a tutela del contraddittorio e dei diritti di difesa del ricorrente, l’obbligo di trasmettere tutti gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero e non soltanto quelli utilizzati per la decisione; nonché l’erronea applicazione della legge penale per avere l’ordinanza ritenuto esistente il reato di cui all’art.727 cod. pen. sulla base dell’interpretazione soggettiva e non documentata del personale di polizia intervenuto sul posto, peraltro smentita dagli accertamenti compiuti dai veterinari, i quali avevano documentato il buono stato di salute degli animali dovuto al sostentamento e alle cure assicurate quotidianamente.

2.2. Con il secondo motivo, i ricorrenti censurano, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc, pen., la nullità dell’ordinanza impugnata per violazione dell’art. 321 cod. proc. pen., nella parte in cui il tribunale del riesame avrebbe configurato il pericolo di reiterazione del reato nonostante l’intenzione, manifestata dagli imputati, di ricoverare gli animali, a proprie spese, in una struttura idonea. In questo modo, infatti, oltre a determinarsi l’immediata cessazione del reato in contestazione, avente natura permanente, il venir meno della disponibilità dei cavalli avrebbe determinato il venir meno della possibilità di prosecuzione dell’attività criminosa.
3. In data 3/01/2017 il Procuratore generale presso questa Corte ha depositato in cancelleria le conclusioni scritte con le quali ha chiesto il rigetto dei ricorsi.

Considerato in diritto

  1. I ricorsi sono manifestamente infondati.

2. Muovendo dall’analisi del primo motivo, deve innanzitutto osservarsi che l’interpretazione articolata dai ricorrenti è in evidente contrasto con quella seguita dalla giurisprudenza di questa Corte, accolta da questo Collegio per condivisione critica, secondo cui in tema di riesame dei provvedimenti di sequestro, il pubblico ministero ha l’obbligo di trasmettere i soli atti posti a sostegno del provvedimento impugnato, in quanto l’art. 324, comma 3, cod. proc. pen. non contiene alcun rinvio alle disposizioni che, in relazione alle misure cautelari personali (v. artt. 291, 292 cod. proc. pen. in relazione all’art. 358 cod. proc. pen.), impongono anche la trasmissione degli atti a favore della persona sottoposta ad indagini (Sez. 6, n. 53160 del 11/11/2016, dep. 15/12/2016, Trani e altri, Rv. 269497). Ne consegue, pertanto, che dalla mancata trasmissione, da parte del pubblico ministero, di atti di indagine diversi da quelli utilizzati per la decisione non deriva alcuna nullità. E del resto, va rilevata, in ogni caso, la carenza di interesse, sul punto, di entrambi i ricorrenti, che davanti al tribunale del riesame non avevano eccepito alcuna discrasia tra le immagini contenute nel CD e quanto invece riportato nella comunicazione della notizia di reato.

Ne consegue, dunque, la manifesta infondatezza della censura.

2.1. Quanto al secondo profilo di doglianza, relativo all’insussistenza del fumus in relazione alla contravvenzione contestata, è appena il caso di rilevare che i giudici del riesame hanno sotto un primo profilo correttamente ricostruito la fattispecie prevista dall’art. 727 cod. pen., rubricato “abbandono di animali”, il quale punisce, al comma 2, la condotta di colui il quale “detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze”.

Come condivisibilmente posto in luce dal tribunale laziale, la giurisprudenza di questa Corte ritiene che il reato in questione sia integrato dalla condotta, anche occasionale e non riferibile al proprietario (Sez. 3, Ordinanza n. 6415 del 18/01/2006, dep. 21/02/2006, Bollecchino, Rv. 233307), di detenzione degli animali con modalità tali da arrecare agli stessi gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura, avuto riguardo, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali (Sez. 3, n. 6829/15 del 17/12/2014, dep. 17/02/2015, Garnero, Rv. 262529; Sez. 3, n. 37859 del 4/06/2014, dep. 16/09/2014, Rainoldi e altro, Rv. 260184). Dunque, ai fini dell’integrazione del reato in esame non è necessario che l’animale riporti alcuna lesione all’integrità fisica, potendo la sofferenza consistere anche soltanto in meri patimenti (Sez. 3, n. 175 del 13/11/2007, dep. 7/01/2008, Mollaian, Rv. 238602) ovvero in situazioni che incidono sulla sensibilità psico-fisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione (Sez. 7, ord. n. 46560 del 10/07/2015, dep. 24/11/2015, Francescangeli e altro, Rv. 265267, la cui inflizione sia non necessaria in rapporto alle esigenze della custodia e dell’allevamento dello stesso (Sez. 3, n.28700 del 20/05/2004, dep. 1/07/2004, Fiorentino, Rv. 229431). E pertanto, è del tutto irrilevante la circostanza che i veterinari non abbiano riscontrato un cattivo stato di salute dei cavalli; e, dall’altro lato, che l’ordinanza gravata ha puntualmente indicato gli elementi di fatto.

Sotto altro aspetto, l’affermazione difensiva secondo cui l’accertamento sarebbe stato compiuto sulla base di un’interpretazione soggettiva degli operanti, osserva nondimeno il Collegio che tale deduzione, oltre a configurare una evidente censura fattuale, finisce per introdurre elementi di critica rivolti alla motivazione, non compatibili con i limiti posti dall’art. 325, comma 1, cod. proc. pen. alla cognizione del giudice del giudice di legittimità in materia di ricorsi in materia cautelare reale, circoscritta alla sola violazione di legge. Nel caso di specie, infatti, i giudici del riesame hanno specificamente motivato l’esistenza di una situazione gravemente incidente sulla sensibilità psico-fisica degli animali proprio con le peculiari modalità del ricovero, ovvero senz’acqua né cibo, in recinti pieni delle loro deiezioni, che non erano state rimosse da giorni.

Pertanto, anche sotto l’aspetto indicato l’impugnazione è infondata.

3. Quanto, poi, al secondo motivo di doglianza, giova premettere che in tema di sequestro preventivo, al fine di evitare una indiscriminata compressione del diritto di proprietà e dì uso del bene, il presupposto del nesso pertinenziale della cosa al reato deve essere oggetto di congrua motivazione da parte del giudice sia con riguardo al profilo della specifica, intrinseca e stabile strumentalità della cosa sottoposta a sequestro all’attività illecita che si ritiene commessa dall’indagato, Sia con riferimento alla possibilità che quell’attività venga reiterata o aggravata (Sez. 6, n. 32807 del 18/07 /2012, dep. 21/08/2012, Bellina Terra, Rv. 253219). E nel caso di specie, l’ordinanza impugnata ha adeguatamente motivato, in primo luogo, per ciò che concerne l’ovvio rapporto di pertinenzialità tra gli animali e la contravvenzione relativa alle condizioni del loro mantenimento e, in seconda battuta, in relazione al requisito del periculum, sottolineando, peraltro in maniera del tutto ragionevole, il rischio che, in mancanza del provvedimento ablativo, i due odierni ricorrenti, i quali avevano dimostrato, con il proprio comportamento, di non tenere in alcun conto le esigenze dei cavalli, potessero reiterare le loro condotte, lasciandoli, nuovamente, una volta riacquisita la disponibilità degli animali, in stato di sostanziale abbandono.

Alla stregua delle considerazioni che precedono ricorsi devono essere, dunque, dichiarati inammissibili.

Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 2.000,00 euro per ciascuno dei ricorrenti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Roma, il 21 marzo 2017

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