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Cinghiali allevati per caccia: le battute di allenamento sono maltrattamento

La corte di cassazione torna sul concetto di "gravi sofferenze" ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 727 c.p.
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Avv. Annalisa Gasparre

Avvocato, dottore di ricerca, vanta una decennale esperienza nel settore della tutela degli animali e dei soggetti deboli. Sito internet

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Il tribunale di Ivrea ha condannato l’imputato perché, quale conduttore di un’azienda agricola, da solo o in concorso con ignoti, deteneva 20 cinghiali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze e, in particolare, in condizioni di stress dovuto al ripetuto inserimento nel medesimo recinto di cani in addestramento da seguita al cinghiale.

Davanti alla corte di cassazione si è lamentata l’assenza di una perizia e quindi l’assenza di prova delle gravi sofferenze inflitte agli animali. Si censurava, inoltre, che il tribunale di merito non aveva preso in esame il verbale di sopralluogo effettuato dai veterinari ASL, le cui risultanze davano atto che i cinghiali presenti nell’allevamento del ricorrente erano in buone condizioni di salute, nutrizione e detenzione.

Il giudice di merito ha accertato che l’imputato, quale gestore di un’azienda agricola ove allevava anche cinghiali, utilizzava una parte del suo terreno, debitamente recintato, per l’addestramento di cani alla caccia al cinghiale; in particolare, all’interno del predetto recinto venivano collocati diversi cinghiali che, inseguiti da molteplici cani in fase di addestramento (e dai loro padroni che li incitavano) fuggivano in tutte le direzioni “all’impazzata”, terrorizzati dagli inseguitori; i cinghiali erano così spaventati che, in alcune occasioni, per sfuggire agli inseguitori si infilavano in alcune aperture del recinto e confinavano nel fondo confinante; tali battute di caccia simulate si svolgevano, prevalentemente la mattina, da una a tre volte alla settimana e sempre alla presenza del gestore. Il giudice di merito ha quindi ritenuto che tali ripetuti addestramenti illeciti cagionavano terrore e sofferenze per i cinghiali, come evincibile dal comportamento di fuga irrazionale degli animali, sintomatico dell’evidente stato di sofferenza continuata.

La corte di cassazione precisa come, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la detenzione impropria di animali, produttiva di gravi sofferenze, vada considerata, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), attingendo al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali. Pertanto, le “gravi sofferenze” non vanno necessariamente intese come quelle condizioni che possono determinare un vero e proprio processo patologico, ma anche come meri patimenti. La corte aggiunge che «assumono rilievo non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione».

In particolare, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 727 c.p., la detenzione di animali in condizioni produttive di gravi sofferenze consiste non solo in quella che può determinare un vero e proprio processo patologico nell’animale, ma anche in quella che produce meri patimenti. È stato, quindi, ritenuto integrato il reato in esame anche in situazioni quali la privazione di cibo, acqua e luce, o le precarie condizioni di salute, di igiene e di, nonché dalla detenzione degli animali con modalità tali da arrecare loro gravi sofferenze.

Dal punto di vista soggettivo, si è chiarito che non è necessaria la volontà del soggetto agente di infierire sull’animale né che quest’ultimo riporti una lesione all’integrità fisica, potendo la sofferenza consistere in soli patimenti.

La sentenza merita di essere segnalata per un ulteriore profilo. L’imputato ha invocato l’applicabilità della scriminante dell’esercizio di un diritto. Tuttavia, la corte di cassazione ha affermato che, ai fini dell’applicabilità della suddetta scriminante, non è sufficiente che l’ordinamento attribuisca all’agente un diritto ma è necessario che ne consenta l’esercizio in funzione scriminante attraverso attività e modalità che permettano alla norma attributiva del diritto di prevalere sulla norma incriminatrice e ciò avviene quando non siano superati i limiti che, secondo la specifica disciplina ordinamentale di riferimento, sono o possono essere fissati ad ogni singolo diritto.

Non scrimina, dunque, il fatto che vi sia una norma che preveda l’addestramento di cani per la caccia perché tale norma prevede che l’addestramento avvenga in zone predeterminate ed in periodi prestabiliti, da individuarsi nei piani faunistico-venatori; la norma presuppone infatti che si tratti di un’attività, di per sé produttiva di sofferenze per gli animali, che, per essere legittima, deve essere attuata secondo modalità, tempi e periodi predeterminati; in altri termini, solo entro tali limiti puo ritenersi consentita.

L’esimente, pertanto, non ricorre nel caso in cui l’addestramento di cani per la caccia, pur essendo consentito a norma della L. n. 157 del 1992, si esplichi, come avvenuto nella specie, al di fuori della regolamentazione prevista dalla predetta legge.

Pubblichiamo di seguito il testo integrale della sentenza.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 8 aprile – 20 maggio 2021, n. 19987 – Presidente Sarno – Relatore Di Stasi

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 31/01/2018, il Tribunale di Ivrea dichiarava F.G. responsabile della contravvenzione di cui agli artt. 110 e 727 c.p., – perché quale conduttore dell’azienda agricola A.A., da solo o in concorso con ignoti, deteneva 20 cinghiali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze e, in particolare, in condizioni di stress dovuto al ripetuto inserimento nel medesimo recinto di cani in addestramento da seguita al cinghiale – e lo condannava alla pena di Euro 3.000,00 di ammenda.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione F.G., a mezzo del difensore di fiducia, articolando tre motivi di seguito enunciati.

Con il primo motivo deduce violazione dell’art. 727 c.p., lamentando che il Tribunale aveva posto a fondamento dell’affermazione di responsabilità le dichiarazioni rese dal teste Z. che non avevano trovato riscontro nelle dichiarazioni rese dagli altri testi escussi e, che, comunque, non potevano comprovare le gravi sofferenze degli animali, in difetto di una perizia sul punto.

Con il secondo motivo deduce violazione dell’art. 727 c.p. e vizio di motivazione, lamentando che il Tribunale non aveva preso in esame il verbale di sopralluogo effettuato dai veterinari ASL in data 5.8.2016, intervenuti a seguito dell’esposto per cui è procedimento, nell’immediatezza dei fatti, le cui risultanze davano atto che i cinghiali presenti nell’allevamento del ricorrente erano in buone condizioni di salute, nutrizione e detenzione.

Con il terzo motivo deduce erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 51 c.p., argomentando che la L. 11 febbraio 1992, n. 157, all’art. 10, comma 8, lett e), consentiva l’addestramento, l’allenamento e le gare di cani anche su fauna selvatica e, pertanto, la condotta del F., se sussistente, non poteva essere oggetto di sanzione perché ammessa dalla legge.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

Si è proceduto in camera di consiglio senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, in base al disposto del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, conv. in L. n. 176 del 2020.

Considerato in diritto

  1. I primi due motivi di ricorso sono inammissibili.

Il ricorrente, attraverso una formale denuncia di vizio di motivazione, richiede sostanzialmente una rivisitazione, non consentita in questa sede, delle risultanze processuali.

Nel motivo in esame, infatti, si espongono censure le quali si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità, ricostruzione e valutazione, quindi, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, Rv. 235507; sez. 6, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, Rv. 235510; Sez. 3, 27.9.2006, n. 37006, Piras, Rv. 235508).
Va ribadito, a tale proposito, che, anche a seguito delle modifiche dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotte dalla L. n. 46 del 2006, art. 8 non è consentito dedurre il “travisamento del fatto”, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez.6, n. 27429 del 04/07/2006, Rv.234559; Sez. 5, n. 39048/2007, Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 2012, Rv.253099) ed in particolare di operare la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Sez. 6, 26.4.2006, n. 22256, Rv. 234148).

La Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in quest’ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con “atti del processo”, specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa, tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 4 08/04/2010 n. 15081; Sez. 6 n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989; Sez.5, n. 6754 del 07/10/2014, dep.16/02/2015, Rv.262722).

Nel ribadire che la Corte di Cassazione è giudice della motivazione, non già della decisione, come si desume da una lettura sistematica degli artt. 606 e 619 c.p.p., ed esclusa l’ammissibilità di una rivalutazione del compendio probatorio, va, al contrario, evidenziato che la sentenza impugnata ha fornito logica e coerente motivazione in ordine alla ricostruzione dei fatti, con argomentazioni prive di illogicità (tantomeno manifeste) e di contraddittorietà.

Il Tribunale, infatti, ha accertato, in aderenza alle risultanze istruttorie, con apprezzamento di fatto immune da censure, e dunque insindacabile in sede di legittimità, che il F. , gestore di un’azienda agricola ove allevava anche cinghiali, utilizzava una parte del suo terreno, debitamente recintato, per l’addestramento di cani alla caccia al cinghiale; in particolare, all’interno del predetto recinto venivano collocati diversi cinghiali che, inseguiti da molteplici cani in fase di addestramento (e dai loro padroni che li incitavano) fuggivano in tutte le direzioni “all’impazzata”, terrorizzati dagli inseguitori; i cinghiali erano così spaventati che, in alcune occasioni, per sfuggire agli inseguitori si infilavano in alcune aperture del recinto e confinavano nel fondo confinante; tali battute di caccia simulate si svolgevano, prevalentemente la mattina, da una a tre volte alla settimana e sempre alla presenza del F. .

Il Giudice di merito ha, quindi, ritenuto che, sulla base delle evidenze istruttorie, tali ripetuti addestramenti illeciti erano causa di terrore e sofferenze per i cinghiali, come evincibile dal comportamento di fuga irrazionale degli animali, sintomatico dell’evidente stato di sofferenza continuata.
La motivazione è, dunque, congrua e logica e si sottrae al sindacato di legittimità; essa, inoltre, è in linea con i principi di diritto affermati da questa Corte in subiecta materia.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la detenzione impropria di animali, produttiva di gravi sofferenze, va considerata, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), attingendo al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali (Sez. 3, n. 37859 del 4/6/2014, Rainoldi e altro, Rv. 260184; Sez. 3, n. 6829 del 17/12/2014, dep. 2015, Garnero, Rv. 262529).

Le gravi sofferenze non vanno necessariamente intese come quelle condizioni che possono determinare un vero e proprio processo patologico, ma anche come meri patimenti (Sez.3, n. 14734 del 08/02/2019, Rv. 275391 – 01; Sez. 3 n. 175 del 13/11/2007, dep. 2008, Mollaian, Rv. 238602).

Assumono rilievo non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione (Sez. 7, n. 46560 del 10/7/2015, Francescangeli e altro, Rv. 265267). Va ricordato che la L. 22 novembre 1993, n. 473, di modifica dell’art. 727 c.p., ha radicalmente mutato il presupposto giuridico di fondo sotteso alla tutela penale degli animali, i quali sono considerati non più fruitori di una tutela indiretta o riflessa, nella misura in cui il loro maltrattamento avesse offeso il comune sentimento di pietà, ma godono di una tutela diretta orientata a ritenerli come esseri viventi.

E si è affermato che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 727 c.p., la detenzione di animali in condizioni produttive di gravi sofferenze consiste non solo in quella che può determinare un vero e proprio processo patologico nell’animale, ma anche in quella che produce meri patimenti (Sez. 3, n. 14734 del 08/02/2019, Rv. 275391 – 01). È stato, quindi, ritenuto integrato il reato in esame anche in situazioni quali la privazione di cibo, acqua e luce (Sez. 6, n. 17677 del 22/3/2016, 4 Borghesi, Rv. 267313), o le precarie condizioni di salute, di igiene e di nutrizione (Sez. 3, n. 49298 del 22/11/2012, Rv. 253882 – 01), nonché dalla detenzione degli animali con modalità tali da arrecare loro gravi sofferenze (Sez. 5, n. 15471 del 19/01/2018, Rv. 272851 – 01); ed è stato anche precisato che non è necessaria la volontà del soggetto agente di infierire sull’animale nè che quest’ultimo riporti una lesione all’integrità fisica, potendo la sofferenza consistere in soli patimenti (Sez. 3, n. 175 del 13/11/2007, dep. 07/01/2008, Rv. 238602 – 01).

3. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Va precisato che per l’applicabilità della scriminante prevista dall’art. 51 c.p., non è sufficiente che l’ordinamento attribuisca all’agente un diritto ma è necessario che ne consenta l’esercizio in funzione scriminante attraverso attività e modalità che permettano alla norma attributiva del diritto di prevalere sulla norma incriminatrice e ciò avviene quando non siano superati i limiti che, secondo la specifica disciplina ordinamentale di riferimento, sono o possono essere fissati ad ogni singolo diritto (Sez.3, n. 950 del 07/10/2014, dep.13/01/2015, Rv. 261626 – 01, in motivazione; Sez. 3, n. 2860 del 22/01/1980, Petrolo, Rv. 144495).

Il ricorrente richiama, in relazione alla scriminante di cui all’art. 51 c.p., la L. 11 febbraio 1992, n. 157, art. 10, comma 8, lett. e), che dispone che “i piani faunistico-venatori di cui al comma 7 comprendono le zone e i periodi per l’addestramento, l’allenamento e le gare di cani anche su fauna selvatica naturale o con l’abbattimento di fauna di allevamento appartenente a specie cacciabili, la cui gestione può essere affidata ad associazioni venatorie e cinofile ovvero ad imprenditori agricoli singoli o associati”.

Orbene, risulta evidente che tale norma, nel prevedere che l’addestramento di cani per la caccia avvenga in zone predeterminate ed in periodi prestabiliti, da individuarsi nei piani faunistico-venatori, muove dal presupposto che tale attività, di per sé produttiva di sofferenze per gli animali, sia attuata secondo modalità, tempi e periodi predeterminati e solo entro tali limiti possa ritenersi consentita.
L’esimente, pertanto, non ricorre nel caso in cui l’addestramento di cani per la caccia, pur essendo consentito a norma della citata L. n. 157 del 1992, si esplichi, come avvenuto nella specie, al di fuori della regolamentazione prevista dalla predetta legge.

Correttamente, pertanto, il Tribunale ha escluso l’applicabilità del disposto dell’art. 51 c.p., con conseguente manifesta infondatezza della doglianza difensiva.

4. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

5. Essendo il ricorso inammissibile e, in base al disposto dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

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