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Accordo storico sulla protezione della biodiversità marina nelle acque internazionali

La salvaguardia dell’alto mare e della sua biodiversità è sempre stata una questione complessa. È stato finalmente raggiunto un accordo storico, l’High Seas Treaty.

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L’High Seas Treaty (Trattato sull’alto mare) ha come obiettivo la collocazione del 30% dei mari in aree protette entro il 2030, per salvaguardare e recuperare la biodiversità marina. L’accordo è stato raggiunto il 4 marzo 2023, dopo oltre 30 ore di colloqui, nella sede delle Nazioni Unite di New York. I negoziati erano stati bloccati per anni a causa di attriti sui finanziamenti e sui diritti di pesca.

Cos’è l’alto mare e perché è a rischio?

Per capire meglio la portata storica di questo accordo è necessario comprendere cosa sia l’“alto mare”. Si definisce alto mare la frazione di oceani e mari non soggetti alle leggi delle diverse nazioni, le quali controllano le acque e i fondali marini che si estendono per 200 miglia nautiche (circa 370 chilometri) dalle loro coste. Le aree al di fuori della giurisdizione nazionale comprendono il 95% degli oceani e sono portatrici di preziosi benefici ecologici, economici, sociali, culturali, scientifici e di sicurezza alimentare.
Non essendo sottoposto a regole specifiche, soprattutto per quanto riguarda la protezione della biodiversità, l’alto mare e i suoi abitanti sono minacciati dall’impatto dei cambiamenti climatici, dallo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali e dai differenti tipi di inquinamento a cui possono essere soggetti.
Non c’è mai stata alcuna forma di protezione per l’alto mare? L’ultimo accordo internazionale sulla protezione degli oceani è stato firmato nel 1982 ed era la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare: fu questo documento che istituì un’area chiamata “alto mare”, corrispondente alle acque internazionali in cui tutti i paesi hanno il diritto di pescare, trasportare e fare ricerca, ma solo l’1,2% di queste acque era protetto.

I punti critici per l’accordo

L’High Seas Treaty si configurava come un accordo particolarmente ambizioso e difficile da raggiungere. Come riportato sul sito della BBC, l’istituzione delle nuove aree protette dovrebbe porre dei limiti alla quantità di pesca che può esservi praticata, alle rotte marittime percorribili e alle attività di esplorazione, come l’estrazione mineraria in acque profonde. È facile capire che queste limitazioni abbiano alimentato la diffidenza di alcuni Stati, che si sono domandati quali sarebbero state effettivamente le aree marine protette, quali i nuovi requisiti per richiedere il permesso di procedere con attività con impatti ambientali considerevoli come estrazione o trivellazione e come si sarebbe potuto procedere in situazioni in cui il nuovo trattato fosse entrato in conflitto con autorità e organismi già esistenti. I Paesi in via di sviluppo hanno ulteriormente frenato l’accordo, temendo una suddivisione non equa delle risorse genetiche marine (MGR) e gli eventuali profitti a esse legati. Le risorse genetiche marine includono «le informazioni genetiche che gli organismi marini ospitano, consentendo loro di produrre un’ampia gamma di sostanze biochimiche di cui può beneficiare l’umanità attraverso le applicazioni della bioscoperta (ossia l’esame di materiale biologico nativo, come piante, animali, funghi e microrganismi, per scopi commerciali, N.d.A.) di composti farmaceutici, cosmetici, integratori alimentari, strumenti di ricerca e nei processi industriali. Includono altresì soluzioni adattive trovate negli organismi di acque profonde che possono anche ispirare nuovi materiali e progetti strutturali».
È comprensibile la preoccupazione delle nazioni povere che hanno temuto di essere penalizzate per mancanza di fondi da investire nella ricerca.
A tal proposito, come suggerisce il The Guardian, in un’azione che potrebbe essere interpretata come un modo di costruire la fiducia tra paesi ricchi e poveri e diluire i timori di quest’ultimi, l’Unione Europea ha promesso 40 milioni di euro per facilitare la ratifica del trattato e la sua rapida attuazione.

Un trattato decisivo per portare avanti il target 30×30 della COP15 sulla biodiversità

Tutti gli attori presenti hanno lavorato alla riuscita di questo accordo: Unione europea, USA, Regno Unito e Cina, che insieme costituivano la High Ambition Coalition, hanno costruito collaborazioni e mostrato disponibilità al compromesso negli ultimi giorni di colloqui. Il Sud del mondo ha cercato di garantire che il trattato potesse essere messo in pratica in modo equo. È così che i 193 paesi che hanno partecipato alla Conferenza intergovernativa sulla biodiversità marina delle aree al di fuori della giurisdizione nazionale sono riusciti a raggiungere l’obiettivo sperato. È importante sottolineare che il quadro giuridico disegnato dall’High Seas Treaty collocherebbe il 30% degli oceani del mondo in aree protette, un passo fondamentale per realizzare il target 30×30 stabilito durante la COP15 sulla biodiversità, tenutasi a Montréal a dicembre scorso. Il goal prevede l’impegno nel proteggere il 30% delle terre e delle acque considerate importanti per la biodiversità entro il 2030.
Sarà ancora necessario del tempo affinché l’High Seas Treaty entri in vigore, ma la via è ormai tracciata.

È possibile leggere una bozza dell’accordo cliccando su questo link.

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