Anna Dudkova / Unsplash

Il caso del pitbull Rocky e l’importanza dello smartphone

Ciascuno di noi può trasformarsi in investigatore, raccogliendo elementi di prova utili anche per supportare la magistratura e fare giustizia.
Avv. Alessandro Ricciuti

Avv. Alessandro Ricciuti

Presidente di Animal Law Italia.

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I tempi della giustizia, si sa, sono lenti. Non deve stupire quindi che sia passato un anno intero dal giorno in cui Rocky, un bellissimo giovane pitbull, veniva ucciso a Napoli da due colpi di pistola sparati da un agente della Polizia di Stato.

Oggi le associazioni animaliste festeggiano il rinvio a giudizio del poliziotto, ottenuta lottando contro la richiesta di archiviazione della Procura della Repubblica. Fondamentale, nella vicenda, l’esistenza di testimoni ma soprattutto di filmati, che hanno di fatto ribaltato l’esito delle indagini.

Una ulteriore occasione per riflettere su come ciascuno di noi, grazie agli smartphone, possa trasformarsi in investigatore, raccogliendo elementi di prova utili per supportare la magistratura e fare giustizia. Questo è vero soprattutto nei casi di maltrattamento di animali, che non potendo testimoniare hanno necessità di tutto il nostro supporto per essere salvati e per far condannare i colpevoli.

Facciamo però un passo indietro. Era il 12 luglio 2019 e gli agenti stavano effettuando un controllo sul proprietario — un venticinquenne agli arresti domiciliari che si trovava in strada — il quale, nel tentativo di sottrarsi all’arresto per violazione della misura cautelare, aizzava il cane contro di loro. Il pitbull in un primo momento aggrediva un poliziotto, lesionandogli una caviglia, ma appena l’agente sparava con l’arma di ordinanza, il cane, gravemente ferito, si allontanava tra le macchine. Nonostante ciò, veniva raggiunto da un secondo colpo, che risultava fatale. 

Questa la ricostruzione della vicenda sulla base delle testimonianze degli astanti, alcuni dei quali avevano anche la prontezza di filmare la scena. La notizia si diffondeva sul web e pochi giorni dopo una folla si radunava in piazza per chiedere giustizia per quella morte tanto inutile quanto insensata, urlando che si era trattata di “un’esecuzione”.

La magistratura apriva quindi un’inchiesta per uccisione di animale (art. 544 bis c.p.), al fine di verificare il rispetto delle procedure da parte degli agenti. Nel frattempo, il poliziotto ferito nel farsi refertare aveva dichiarato di aver sparato per difendersi. Davanti alla parola di un pubblico ufficiale, la vicenda sarebbe stata rapidamente dimenticata, se non fosse stato per le associazioni animaliste, che non esitavano a sporgere denuncia.

Dopo appena quattro mesi la doccia fredda: il pubblico ministero chiedeva l’archiviazione, sostenendo l’assenza del dolo in quanto da un filmato disponibile sarebbe apparso evidente che l’agente avrebbe agito innanzitutto per respingere l’iniziale aggressione del cane e avrebbe poi sparato nuovamente temendo una nuova aggressione. Questa conclusione veniva giustificata anche in virtù della pericolosità “intrinseca” della razza. 

Tutto finito? No, perché i fatti erano ben più complessi rispetto a questa sbrigativa ricostruzione. Oltretutto, era tutto avvenuto sotto gli occhi di testimoni e soprattutto delle telecamere dei loro smartphone.

Le associazioni si opponevano alla richiesta di archiviazione, contestando innanzitutto che non vi fosse la necessità di sparare il colpo fatale, dopo che il pitbull era già stato gambizzato e si stava allontanando del tutto innocuo, peraltro gravemente ferito e sofferente. Nell’opposizione e all’udienza successiva davanti al Gip, i legali delle associazioni osservavano che sarebbe bastato un colpo a salve per intimorire l’animale, senza necessità di colpirlo e meno che mai di ucciderlo. La reazione dell’agente era stata quindi sproporzionata al pericolo e incompatibile con la possibilità di invocare la scriminante dello stato di necessità.

A supporto di tale tesi, era stata anche presentata una perizia del dott. Enrico Moriconi, medico veterinario esperto in etologia, che esaminando i filmati diffusi online aveva valutato che dopo il primo colpo il cane era del tutto innocuo.

Nella decisione, comunicata l’8 luglio, il GIP dott. Campoli ha rigettato la richiesta di archiviazione, accogliendo pienamente la tesi dei legali delle associazioni: la ricostruzione del pm non è condivisibile — si legge nel provvedimento — soprattutto in relazione «alla seconda fase degli spari in danno del cane, in quel momento già palesemente ferito e dall’andatura claudicante», sicché «emergono, ad avviso di questo giudice, concreti elementi probatori per un accertamento in sede dibattimentale della condotta contestata all’imputato».

Al pm non resta quindi che adempiere all’obbligo, formulando entro dieci giorni l’imputazione. In termini più semplici: il poliziotto verrà rinviato a giudizio per rispondere del suo comportamento, che a parere del Gip è compatibile con il reato di uccisione di animale, che prevede una pena da quattro mesi a due anni.

Le immagini mostrano in modo distinto il pitbull nell’atto di trascinarsi verso un portone, disperato e senza mostrare alcuna ostilità verso le persone che lo circondano, prima di accasciarsi in un lago di sangue. Sembra che solo dopo mezzora, una volta che i colleghi avevano impedito ad alcuni cittadini di prestargli soccorso, una poliziotta impietosita avrebbe trasportato l’animale ormai morente presso un centro Asl.

Diversamente era andata nel caso del cane ucciso a bastonate nel 2014 da due pastori a Leno (BS), assolti in primo grado e anche in appello. I due, padre e figlio, sostennero di essersi difesi dall’aggressione del cane, anche se furono visti e fotografati da un passante — purtroppo rimasto anonimo — mentre prendevano a calci e bastonavano ripetutamente un cane meticcio di nome Moro, fino a ucciderlo scagliandogli in testa una pietra.

Purtroppo in quel caso si trattava di una assoluzione annunciata, mancando il supporto di testimoni e le immagini fornite dall’ignoto non riprendevano l’intera sequenza. Non sono state quindi ritenute sufficienti per raggiungere la prova della colpevolezza.

La vicenda di Napoli, che potrebbe avere un diverso epilogo, si fonda sull’esistenza non soltanto di filmati ma anche di testimoni oculari. Ancora una volta, la dimostrazione dell’importanza non soltanto di segnalare e denunciare ma anche di “metterci la faccia”, per contribuire ad assicurare alla giustizia i colpevoli dei reati contro gli animali.

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