José Somovilla/Pixabay

Green Hill, 11 anni dopo: il caso, il processo e la sentenza

La protesta pacifica, la liberazione di oltre 2000 beagle, la storica condanna e i nuovi divieti di allevamento a fini sperimentali.

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Articolo di Francesca Faraoni, laureata in Giurisprudenza presso l’Università di Pisa, e Angela Maria Panzini, studentessa di Giurisprudenza presso l’Università La Sapienza di Roma.

In molti ricorderanno l’iconica immagine del piccolo beagle sospeso sopra il filo spinato che cingeva la “fabbrica di cuccioli” destinati alla sperimentazione animale.
Quest’oggi ricorre l’undicesimo anniversario di quella celebre giornata, quando un nutrito gruppo di attivisti, dopo giorni di manifestazioni, riuscì finalmente a far penetrare la luce del sole all’interno dei capannoni della Green Hill S.r.l., dando origine a un lungo processo conclusosi con la condanna dei responsabili e dei gestori della struttura per i delitti di uccisione e maltrattamento di animali.
Ripercorriamo la vicenda che sconvolse l’opinione pubblica, stimolando un maggior grado di empatia e di consapevolezza sul tema, ispirando altresì una significativa riforma legislativa che ha vietato l’allevamento di cani, gatti e primati destinati alla sperimentazione.

Le proteste pacifiche e l’ingresso a Green Hill

Il 28 aprile del 2012, durante un corteo pacifico, alcuni manifestanti riuscirono a penetrare all’interno dello stabilimento Green Hill di Montichiari, in provincia di Brescia, operante dal 2001 nel settore dell’allevamento di cani destinati alla sperimentazione di farmaci ad uso animale e umano, per la produzione di mangimi dietetici per pets, per interventi di microchirurgia e per la determinazione di livelli di contaminazione ambientale di origine organica e chimica, recuperando decine di cuccioli di cani di razza Beagle.

Questo episodio rappresenta il culmine di una lunga serie di manifestazioni promosse nei mesi precedenti da numerose sigle animaliste, unite dalla volontà di contestare un business ritenuto inaccettabile, tanto da attirare per mesi migliaia di attivisti da tutta Italia.

Nel luglio dello stesso anno, un’ispezione porterà gli inquirenti a scoprire le terribili condizioni in cui vivevano i cani allevati in quella struttura, nella quale si registrava una mortalità stimata nell’ordine di circa 6000 beagle in 4 anni. Oltre a essere il bersaglio di continue proteste, la struttura era infatti già da tempo oggetto di esposti, sia per irregolarità amministrative, che per presunti reati contro gli animali.

Il 18 luglio dello stesso anno, tutti i beagle di Green Hill furono oggetto di sequestro probatorio e il loro recuperò terminò il 21 settembre 2012, quando la Procura della Repubblica di Brescia ne affidò la custodia ad associazioni impegnate nella protezione animale. Ben presto tutti i cani vennero affidati a privati, trovando la loro prima famiglia e godendo finalmente di aria aperta e luce naturale, sottratti al frastuono causato dall’abbaiare dei propri simili all’interno dei capannoni.

Dalla movimentazione sociale al rinvio a giudizio della società Green Hill e dei suoi gestori

La mobilitazione sociale concentratasi attorno all’allevamento di Montichiari ha costituito un prezioso stimolo per l’attività di indagine condotta dalla magistratura requirente di Brescia, conclusasi con l’emanazione, in data 26 settembre 2013, del decreto di citazione diretta a giudizio della società Green Hill 2001 S.r.l. e dei suoi gestori. In particolare, le indagini hanno portato alla formulazione di due capi d’accusa a carico del personale della famigerata fabbrica di cuccioli per i delitti di cui agli artt. 110, 81, secondo comma, 544 bis e 544 ter del codice penale. Agli imputati venivano quindi contestati, in concorso, il reato di animalicidio e il reato di maltrattamento di animali, per aver causato la morte ingiustificata di un elevato numero di animali e per aver sottoposto i cani detenuti nell’allevamento a comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche.

Un terribile vaso di Pandora: il processo che contribuì a far luce su alcuni aspetti della sperimentazione animale

Ebbene, la sentenza del 24 marzo 2015 del Tribunale di Brescia costituisce un momento importante per il riconoscimento dei diritti animali, anche in un settore particolarmente delicato come quello della sperimentazione.

Dalle indagini è tristemente emerso che ai 2.639 cani internati veniva riservato un trattamento degradante, precludendo loro la possibilità di rispondere ai più elementari stimoli, sino alla pratica disinvolta dell’eutanasia per abiette ragioni di economicità, in aperto contrasto con la legge speciale vigente all’epoca dei fatti.

Come specificato in sentenza, il D.lgs. 116/1992 sulla protezione degli animali adoperati a fini scientifici prevedeva «prescrizioni di carattere cogente e non mere direttive o raccomandazioni, comunque, deregolabili» che i gestori dell’allevamento violavano consapevolmente. Per esempio, sono documentalmente provate dalla corrispondenza via mail del personale, le elevate temperature dei capannoni, ben oltre la soglia prevista dall’art. 5 della predetta legge (30 gradi centigradi anziché, al massimo, 21 e in totale assenza di un adeguato sistema di areazione dei locali), che inevitabilmente aggravavano le condizioni di salute dei cani reclusi nelle gabbie, troppo piccole, inadatte a consentire agli animali di isolarsi, sottraendosi alle sollecitazioni esterne dei loro simili.

E proprio sulle condizioni di salute dei beagle si concentra l’ultima e più corposa parte della sentenza. Dalla relazione dei consulenti tecnico-veterinari della Procura è emerso che i cani reclusi presso Green Hill fossero diffusamente affetti da dermatiti gravi e da diarrea cronica, sintomo manifesto di malattie del tratto enterico causate da stati di malnutrizione e promiscuità. Le cure somministrate dagli operatori erano tuttavia insufficienti, tanto nei dosaggi quanto nei giorni di impiego dei medicinali, sicché le condizioni di molti dei cani ospitati peggioravano sino alla morte. In altri casi, invece, veniva praticata loro l’eutanasia, senza scrupoli, soprattutto nei cuccioli, i quali avrebbero ben potuto essere curati tramite trasfusioni, purtroppo troppo complesse e costose da attuare.

La sentenza prende, inoltre, in esame le modalità con cui venivano praticati gli interventi chirurgici ai cani di Green Hill. In particolare, è emerso che l’anestesia veniva effettuata senza l’osservanza delle prescritte procedure preanestetiche, causando forte sofferenza e disagio negli animali, cui conseguivano non infrequenti decessi per insufficienza cardiaca e respiratoria. I cuccioli venivano detenuti in gabbie le cui lettiere erano ricavate da tanti piccoli pezzi di segatura che, ingeriti, ne comportavano disidratazione, impossibilità di alimentarsi e nei casi più gravi la morte per soffocamento. Tutti questi comportamenti, ai quali deve aggiungersi l’uccisione di 44 cani, con l’unico fine di liberarsi di animali non più vendibili sul mercato, hanno condotto alla condanna degli imputati per il delitto di cui all’art. 544 bis c.p.

La sentenza non manca poi di analizzare compiutamente le condotte che causavano agli animali non solo sofferenze fisiche (come la tatuatura a mezzo di aghi dei codici identificativi al posto dell’impiego dei chip, ovvero l’omissione di cure), bensì anche lesioni di carattere psicologico, quali la mancanza di aree paddock per lo sgambamento, l’impossibilità di trovare luoghi appartati in cui riposare, lo sfruttamento delle fattrici e il turbamento provocato alle stesse (di cui era conseguenza il disinteresse alle cucciolate e, sovente, la morte prematura dei piccoli).

Sul punto, il Tribunale ha ravvisato l’integrazione della fattispecie di cui all’art. 544 ter c.p. nella privazione, ai danni dei beagle, dei loro pattern comportamentali, siccome sottoposti a comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche. Nessuna fondatezza è stata pertanto ravvisata nella ricostruzione offerta dalla difesa, secondo cui tali condotte sarebbero state invero riconducibili alla specifica attività di allevamento di animali da ricerca.

La sentenza in esame colpisce perché, per la prima volta, è stato ritenuto superato il limite – invalicabile – della necessarietà imposta dalle norme di settore. Sebbene talune attività (come la sperimentazione animale, il macello et similia) consentano l’uccisione e lo sfruttamento dell’animale, le leggi speciali ne disciplinano puntualmente le modalità di esecuzione, sicché ogni condotta esorbitante le previsioni normative ben può integrare il maltrattamento.

La conferma della condanna in secondo e terzo grado di giudizio

La condanna in primo grado è stata oggetto di impugnazione innanzi alla Corte d’Appello di Brescia, che l’ha confermata integralmente con la sentenza del 23 gennaio 2015. Avverso tale conferma, i condannati hanno quindi proposto ricorso per Cassazione che, in data 3 ottobre 2017, ha finalmente messo un punto a questa triste vicenda.

In dettaglio, con il primo motivo, i ricorrenti hanno lamentato la violazione dell’art. 544 ter, primo e terzo comma c.p. e dell’art. 13 del d.lgs. n. 116 del 1992, nonché vizi della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità penale, allegando che l’art. 19 ter delle disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale esclude l’applicazione della sanzione nel caso in cui siano rispettate le disposizioni previste dalle leggi speciali che disciplinano l’allevamento di animali a fini di sperimentazione.

Con il secondo motivo, le parti soccombenti hanno eccepito la mancata riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 727, secondo comma, c.p., nonché vizi della motivazione, e hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 544 ter c.p., in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, 117, primo comma, Cost., nonché 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui esso punisce più gravemente chi sottopone un animale a comportamenti insopportabili per le sue caratteristiche etologiche rispetto a quanto previsto dall’art. 727 c.p., per chi detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di grave sofferenza.

Infine, hanno lamentato un vizio di motivazione in merito alla condanna per l’uccisione di alcuni cani per eutanasia in assenza di ragionevoli motivi.

Tutti i tre motivi del gravame sono stati rigettati dalla Suprema Corte, ma di particolare pregio è soprattutto la motivazione addotta dai Giudici in merito al secondo motivo di ricorso.

La Corte infatti chiarisce due importanti aspetti. In primis, ravvisa piena correttezza nell’operato dei giudici di primo e secondo grado nella parte in cui hanno individuato il dolo nella condotta degli imputati, avendo gli stessi attuano «precise e consapevoli scelte decisionali di violazione delle corrette regole di tenuta dell’allevamento», nonostante si trattasse di «soggetti pienamente dotati della competenza tecnica per comprenderne le conseguenze negative sugli animali».

In secondo luogo la Cassazione, a fugare ogni incertezza sull’importanza del benessere animale in relazione alla componente etologica e non meramente fisica, osserva che l’art. 544 ter c.p., diversamente da quanto previsto dall’art. 727 c.p. (fattispecie contravvenzionale che punisce chi detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di grave sofferenza), integra un delitto caratterizzato dal solo elemento soggettivo del dolo e non anche da quello della colpa, nonché dall’ulteriore presupposto della crudeltà o della mancanza di necessità.

Un importante passo verso una maggiore consapevolezza giuridica e legislativa

In conclusione, è di tutta evidenza che la sentenza di Green Hill costituisce una vera pietra miliare per il riconoscimento dei diritti animali, poiché l’intera vicenda giudiziaria è stata innescata da una nuova consapevolezza sociale e ha dato a sua volta origine a importanti riforme, come l’emanazione del più stringente D.lgs. 26/2014, che vieta l’allevamento di cani, gatti e primati da laboratorio in Italia.

Purtuttavia, è altresì doveroso osservare che i due capi di imputazione e di condanna dei colpevoli di Montichiari originano da una prospettiva ancora, fortemente, antropocentrica. Il Titolo IX bis del Codice Penale è infatti rubricato “Delitti contro il sentimento per gli animali”: ne consegue che l’oggetto dei reati de quibus è pur sempre la sfera affettiva delle persone verso gli animali e non l’animale stesso o, ancora meglio, il diritto dell’animale a una vita dignitosa.

Fonti

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