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Scarti riqualificati dell’industria. Norme minime per la protezione dei vitelli

I retroscena dell'industria casearia e la protezione, seppur minima, dei vitelli.
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Elisabetta Montinaro

Dottoressa in giurisprudenza con una tesi in diritto dell'ambiente dal titolo “Il benessere animale come valore giuridico tra diritto nazionale e diritto euro-unitario”. Praticante avvocato presso uno studio di diritto amministrativo; da sempre sostenitrice della causa animalista e attiva presso associazioni di volontariato che operano sul territorio per la cura e il benessere dei cani e dei gatti. Crede fermamente nelle potenzialità del cambiamento individuale e dell'esempio virtuoso ed è convinta che il primo passo per cambiare il mondo sia cambiare sé stessi.

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«Fra tutte le forme di allevamento intensivo oggigiorno praticate, l’industria della carne vitella di buona qualità si presenta come la più ripugnante da un punto di vista morale…», scriveva Peter Singer nel 1976, paragonandola soltanto, quanto a crudeltà, all’alimentazione forzata delle oche per la produzione del paté de foie gras.

A rendere particolarmente brutale l’industria della carne del vitello, il quale rappresenta oggi uno “scarto” riqualificato dell’industria lattiero-casearia, è la circostanza che i vitelli, subito dopo la nascita, vengano separati dalle madri ed allevati per le prime otto settimane in recinti individuali, poi in gruppo, fino al raggiungimento del peso ideale per la macellazione.


Da “scarto dell’industria del latte” a “prodotto pregiato”.

Per ricostruire i retroscena di questo tipo di allevamento occorre però fare un passo indietro. In passato, prima dell’avvento del sistema di allevamento intensivo, il vitello era considerato a tutti gli effetti uno scarto dell’industria del latte, un animale inutile dal punto di vista del profitto. E ciò perché la sua carne, in condizioni naturali, non è affatto tenera: lo è soltanto nei primissimi giorni di vita, prima dello svezzamento. Ed infatti, non appena il vitellino comincia ad essere autonomo dalla madre, a mangiare l’erba e a pascolare, i suoi muscoli si rinforzano e la sua carne diventa più scura e dura. Pertanto, per i produttori delle aziende casearie, l’unica maniera per ricavare del profitto da questi “animali indesiderati e dalla carne eccessivamente dura” era venderli al più presto ai macelli, nei primi due o tre giorni di vita, quando la loro carne era ancora sufficientemente chiara e tenera.

Il mercato della carne di vitello era dunque, fino a pochi decenni fa, marginale e poco redditizio. Le cose cominciarono a cambiare a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, quando gli allevatori trovarono la maniera per trarre un maggior profitto dalla carne di vitello, dando vita a quello che oggi è il redditizio mercato del “vitello a carne bianca”. Ciò fu reso possibile solo alterando sensibilmente i processi biologici dei vitelli e attuando pratiche incompatibili con le caratteristiche etologiche della specie bovina, fortemente discutibili da un punto di vista etico ma che consentono alle aziende di allevare vitelli che arrivano a pesare fino 150 kg, mantenendo al contempo una carne chiara e tenerissima. Vediamo di quali pratiche si tratta.


Solo come un…vitello.

I vitelli vengono separati dalla madre appena nati e collocati all’interno di recinti individuali, dove restano per circa otto settimane; successivamente vengono allevati in gruppo, in attesa di essere macellati. Questa separazione è molto vantaggiosa da un punto di vista produttivo dal momento che il latte prodotto dalla mucca viene destinato da subito al consumo umano, mentre la mucca, tornando più rapidamente in calore, può essere nuovamente ingravidata. All’interno del box, le cui dimensioni sono molto ridotte, il vitellino può muoversi a stento, non ha contatto con i suoi simili, se non visivo, attraverso le fessure delle pareti divisorie, e non ha stimoli di alcun tipo.


Naturalmente, la sofferenza maggiore è rappresentata dall’assenza della madre, come sarebbe per qualunque neonato. Il vitellino va alla ricerca dei capezzoli della madre e, come ci riferisce P. Singer, è frequente scorgerne alcuni mentre tentano di succhiare freneticamente parti del box che ne rievocano la forma, senza trovare nulla di lontanamente sostitutivo del capezzolo e del calore materno.

Anche la naturale predisposizione alla ruminazione è frustrata da questo sistema, dal momento che paglia, foraggio ed erba, alimenti che il vitellino consumerebbe in natura, gli sono assolutamente preclusi poiché, contenendo ferro, renderebbero la sua carne scura e dunque invendibile. I vitelli vengono nutriti prevalentemente con latte in polvere, ricavato dalla riconversione dell’eccedenza del latte prodotto per il consumo umano. Non avendo possibilità di muoversi, il dispendio di energie è minimo ed ingrassano molto velocemente.

L’adozione di tali tecniche di produzione fa sì che il vitello, al momento della vendita, arrivi a pesare fino a 150 kg, mantenendo però al contempo una carne bianca, tenerissima e “pregiata”, particolarmente apprezzata dai consumatori.


Cosa dice la legge

L’Unione Europea ha dedicato alla protezione dei vitelli in allevamento la Direttiva 629/91/CEE, modificata da interventi successivi e poi sostituita definitivamente dalla più recente Direttiva 2008/119/CE. Sebbene nelle considerazioni inziali della Direttiva si sottolinei che i vitelli, in virtù della loro naturale predisposizione ad aggregarsi in mandrie, dovrebbero essere allevati in gruppo, è ammesso l’allevamento in box singoli per le prime otto settimane, purchè consentano minime libertà di movimento.

La larghezza del recinto deve essere pari all’altezza al garrese dell’animale e la lunghezza alla sua lunghezza, calcolata dalla punta del naso all’estremità caudale, moltiplicata per 1,1.

Come accennato, in uno spazio di tali dimensioni, il vitello riesce appena a muoversi. Per i vitelli allevati in gruppo, invece, deve esserci uno spazio di 1,5 m 2 per ogni vitello che abbia peso inferiore a 150 kg, di 1,7 m 2 per ogni vitello che abbia un peso superiore a 150 kg ma inferiore a 220 kg e di 1,8 m 2 per i vitelli che superino i 220 kg.

Disposizioni specifiche sono poi contenute nell’allegato alla Direttiva. È prevista, ad esempio, un’illuminazione degli ambienti dalle ore 9.00 alle ore 17.00; si prescrive un controllo giornaliero degli animali ed un adeguato trattamento nel caso di ferite o malattie, con l’intervento, se necessario, di un veterinario.

I pavimenti non devono essere sdrucciolevoli e devono essere costruiti in modo da evitare lesioni e sofferenze agli animali; la zona in cui si coricano deve essere pulita, confortevole e adeguatamente prosciugata. Inoltre, il punto 15 dell’allegato stabilisce che il vitello deve ricevere colostro bovino quanto prima possibile dopo la nascita e comunque entro le prime sei ore di vita.


Conclusioni

Senza disconoscere lo sforzo fatto dal legislatore europeo nell’ottica di una protezione, seppur minima, dei vitelli, non può farsi a meno di rilevare l’assenza di qualsivoglia richiamo a degli auspicabili tempi minimi di permanenza del vitello con la madre. La prematura separazione del vitello dalla mucca è fonte di profonda sofferenza e stress per entrambi, che continuano a cercarsi per le settimane successive, e costituisce senza dubbio l’aspetto più drammatico, triste ed eticamente inaccettabile dell’industria del latte, quello che, al di fuori delle logiche del profitto, non può e non potrà mai avere alcuna giustificazione.

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